Venerdì 6 Dicembre 2013 presso la Sala Borremans di Palazzo Butera a Bagheria si è svolta la manifestazione organizzata dal movimento cittadino Bagheria Bene Comune in collaborazione con “Iniziativa Donna” all’interno della rassegna di eventi dedicati alla lotta contro la violenza sulle donne.
“Speziamo il filo rosso” è il titolo dell’evento che ha visto tra i relatori anche la giornalista Marina Mancini.
Di seguito il testo del suo intervento:
“Intanto permettetemi di ringraziare il movimento Bagheria Bene Comune per aver pensato ad invitare una giornalista donna per discutere del ruolo che ha la comunicazione in rapporto al triste fenomeno della violenza contro le donne, li ringrazio non solo per le tante attività che realizzano sul territorio a favore della comunità ma anche perché hanno contribuito a mantenere accesi i riflettori anche dopo il 25 novembre la giornata dedicata alle donne vittime di violenza, su uno dei drammi che ancora oggi, e forse oggi più che mai, sporcano di sangue innocente le nostre comunità.Mi si chiede quanto sia importante la comunicazione per contribuire a mettere un tassello al fine di evitare queste violenze, per evitare queste morti: ebbene a mio giudizio la comunicazione è fondamentale.
Voglio fornirvi brevemente degli spunti di riflessione, prima di entrare nello specifico della comunicazione giornalistica e dei mass media che è poi l’argomento che più mi compete.
Mi piacerebbe farvi riflettete velocemente su alcuni aspetti della comunicazione: uno dei quali è legato all’abitudine agli stereotipi.
Ne hanno già accennato i relatori che mi hanno preceduto …Il primo esempio per una corretta comunicazione deve essere fornito dalla famiglia: la comunicazione verbale ma anche quella non verbale, a casa propria, è fondamentale per l’educazione dei nostri figli.
Alle bimbe regaliamo bambole e pentoline al bimbo automobiline e finti arnesi da lavoro… al bimbo che piange diciamo “fai l’ometto non piangere o peggio ancora… piangi come una femminuccia”.
Ebbene anche in casa possiamo iniziare ad insegnare l’uguaglianza tra i generi, il rispetto per la donna ma anche per l’uomo. Perché mai l’uomo non deve avere il diritto di piangere, di sentirsi debole in qualche momento?
Prendiamo poi il linguaggio all’interno delle nostre professioni: avete fatto caso che noi diciamo il presidente della Camera per Laura Boldrini e non la presidentessa, il il ministro keyenge e non la ministra, e così via???
Presidentessa, Sindaca, Ministra, suonano strani, suonano male, per alcuni sono addirittura cacofonici e persino il vocabolario ancora li ignora!
Eppure a mio parere siamo di fronte ad un pregiudizio!
Questi termini, assicura l’Accademia della Crusca, sono assolutamente corretti da un punto di vista grammaticale. Perché non dovremmo farci l’abitudine?
Oppure vogliamo continuare a portare avanti un’invisibilità linguista della donna a favore dell’uso di un presunto maschile neutro?
Perché non usare la versione femminile delle qualifiche professionali forse perché il mondo del lavoro è ancora maschio?
La parità dei sessi è anche una questione di linguaggio e questo in altri stati, come la Francia per esempio, lo hanno già capito, tanto è che c’è già un esplicito pronunciamento ufficiale in diversi stati europei.
Ma il linguaggio non è solo quello verbale, non ci dimentichiamo delle immagini.
Veniamo allora ai media, pensiamo alle immagini che ci propongono tanti spot: perché per promuovere una bella automobile scatta l’idea che debba essere accompagnata necessariamente anche da una bella modella in bikini?
Lo stereotipo dell’idea di bella donna seminuda per la pubblicità è storia vecchia e lo sappiamo.
Di esempi di spot con messaggi più o meno subliminali, messaggi in cui la donna è mercificata, equiparata ad un oggetto che si può comprare, usare e perché no anche gettare ce ne sono stati parecchi. Siamo di fronte ad una violenza sessista.
Ed in fondo anche chi vorrebbe far bene rischia di seguire dei cliché: pensate alla pubblicità progresso. Anche qui volti tumefatti di donne, mentre gli uomini attori della violenza restano eternamente invisibili.
I media giocano un ruolo chiave nel contribuire a costruire e diffondere modelli sociali e comportamentali di donna.
I media veicolano uno stereotipo di donna priva di intelletto, che viene “esposta” al pubblico come puro oggetto del desiderio, o come mero “contorno” all’opera e alle capacità dell’uomo.
Se non corretti, questi stereotipi possono infatti ostacolare una corretta percezione e quindi prevenzione del fenomeno stesso della violenza.
Bisogna dunque mettere in discussione questo diktat del mercato mediatico creando consapevolezza e sensibilizzando il pubblico (specie i bambini e gli adolescenti) sull’utilizzo manipolatorio del corpo delle donne nei media per raccontare quanto sta avvenendo, soprattutto a chi abusa quotidianamente dei media.
Ma per venire più strettamente a quello che è il mio lavoro, una tirata d’orecchie va fatta anche alla nostra categoria: i giornalisti.
Pensate, per esempio, ad un caso di recente cronaca: la brutta storia sulle baby prostitute. Appunto le hanno chiamate Baby prostitute, baby squillo, baby escort, addirittura da qualche parte le ho sentite chiamare ragazze doccia.
Ovunque, senza distinzione di sorta, a partire dai programmi di Canale 5, quello di Barbara D’Urso ma anche quelli della Rai, del cosiddetto servizio pubblico, morbosamente andavano a intervistare la mamma, il papà, la zia della vittima, della bambina, e non i parenti del cliente, dell’aguzzino.
La morbosità del racconto ha vinto su tutto ma L’informazione morbosa è violenza. E’ stata lesa la privacy di minori e tutto è passato sotto i nostri occhi e quelli dei nostri figli senza che ci indignassimo. E’ il mercato che lo chiede, si deve fare audience? Bene cambiamolo questo mercato!
Se l’informazione malata, piena zeppa di dettagli e stereotipi sessisti e discriminanti nelle parole e nelle immagini, riguarda delle ragazze minorenni, come in questo caso, allora abbiamo un problema, e come categoria dei giornalisti, dobbiamo farcene carico.
Non ci scandalizziamo di fronte allo sfruttamento di due minorenni, finite a far ingrossare i portafogli di due uomini adulti che organizzavano incontri a pagamento con altrettanti maschi adulti: professionisti come emerge dall’inchiesta della procura di Roma.
Uomini la cui vita non scandalizza, -quella delle ragazze invece sì- tanto che abitudini, profili su social network e altro, restano protetti. Al contrario di quanto continua ad accadere con le minorenni. Buttate in prima pagina.
Questa è solo un’informazione pruriginosa che va a solleticare il nostro spirito vouriastico, forse qualcuno tra di noi, sotto sotto, ha pensato “però ‘ste ragazzine se la sono andata a cercare” … e invece sono vittime, credetemi, sono vittime e non Lolite.
In generale e dal punto di vista giornalistico invece di soffermarsi solo sul delitto, sulla vittima è fondamentale anche ricostruire senza cliché, senza banalità, le storie e i contesti in cui avvengono, ricostruire la storia significa mostrare in diretta quanto la violenza sia trasversale: alle generazioni, ai luoghi, a fasce sociali diverse per cultura o censo. In altre parole significa rispettare la vittima, significa fare buon giornalismo.
Come è fare buona informazione proporre anche modelli positivi, raccontare la storia di donne che si sono chiuse una porta alle spalle e sono state sostenute in questo cammino dalle forze dell’ordine, dalla magistratura, dalle comunità di accoglienza.
L’informazione corretta sostiene le donne che stanno vivendo una situazione di violenza a non sentirsi uniche e sbagliate.
Ma torniamo di nuovo all’importanza del linguaggio, alle parole che usiamo alcuni di noi giornalisti:
Sui quotidiani occorre evitare titoli di fatti di cronaca, ricorrendo a frasi come: raptus di gelosia, omicidio passionale, l’ha uccisa perché l’amava moltissimo. Sono frasi fatte e rifatte da una cultura che pesa sulla libertà delle donne e degli uomini; sono luoghi comuni nei quali ci siamo infilati per inerzia con il rischio di restarne prigionieri.
Ed infine valutiamo anche i media che consideriamo più più trandy al momento: i social network.
Senza negare l’importanza della tecnologia, questa dovrebbe essere vissuta meglio, usata meglio, usata appunto come uno strumento e non vissuta come se fosse l’unico.
Anche la violenza sulle donne, legata alla volontà di potere e possesso, è sicuramente cambiata con la tecnologia.
Pensate allo stalking, quanti casi di maniacale controllo attraverso i cellulari, Whatsapp, Facebook, alla diffamazione sui tutti questi network.
Il problema è che davanti al computer siamo sì soli, ma con una folla di fronte.
Senza contare che con facebook non esiste più privacy.
Della vittima sappiamo tutto, prendiamo la sua foto dal suo profilo e la sbattiamo in prima pagina, conosciamo i suoi amici, la sua storia, e cosa aveva fatto e scritto fino al giorno prima di morire.
Occorre pensarci quando li utilizziamo, pensarci non solo in quanto utilizzatori ma al momento di entrare nelle vite degli altri.
Ad ogni modo essere nella rete non vuol dire essere veramente, esistere. E’ anche questo che dovremmo far capire soprattutto ai più giovani.
Tutti gli strumenti,a partire da facebook, vanno usati con rispetto, con intelligenza, perché i media hanno un ruolo cruciale nella parità di genere, perché proponendo modelli, li creano, influenzano la cultura, agiscono in modo potente sulla formazione delle identità singole e collettive.
Per tutto quanto detto sin qui come potremmo pensare che la comunicazione è materia residuale, la comunicazione ha invece un potere enorme e può contribuire a salvare o uccidere un uomo come una donna… ricordiamocene.